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Marie Kondo, il Potere del Riordino e i Cuori Spezzati

 

‘E allora ti terrò in questa piccola scatola fino a che non smetterai di mancarmi”


Ultimamente mi è capitato di guardare su Netflix la serie-documentario su Marie Kondo, l’autrice dell’ormai famoso libro “Il magico potere del riordino”.

La donna insegna a diverse persone come mettere ordine nelle proprie case e come liberarsi delle cose in sovrappiù, distinguendo fra ciò che che regala gioia e ciò che non lo fa. E guardando la piccola, sorridente Marie entrare nelle vite altrui per aiutarle ad avere una nuova vita, non ho potuto fare a meno di trovare un’assonanza con ciò che accade alla fine di una relazione sentimentale.

Le persone si mettono insieme, vivono storie più o meno coinvolgenti e poi, a volte, si lasciano e i distacchi avvengono in maniera più o meno traumatica: un marito che si scopre aver costruito una seconda famiglia parallelamente alla prima, una donna che confessa di non essere mai stata veramente innamorata del compagno, un ragazzo che lascia la sua fidanzatina via messaggio per poi bloccarla su tutti i social impedendole un confronto faccia a faccia.

Rivelazioni, accadimenti e modalità nel lasciarsi che rendono più traumatico il finale, già traumatico e doloroso di per sé.

A questo si aggiungono le tante parole (purtroppo fuori luogo) che amici e parenti spendono per provare a consolare la persona abbandonata: “ma in fondo hai sempre avuto la sensazione di non poterti fidare”, “alla fine meglio che se ne sia andata lei perché tu non saresti mai riuscito a lasciarla”, “il vostro rapporto era caotico e tossico, è meglio che sia finita” e via dicendo.

Così la persona che “subisce” la fine complicata di una storia complicata, inizia un’ estenuante lotta contro se stessa per uscire il più velocemente possibile dalla storiaccia appena vissuta.

Eh si, perché mica puoi stare là a piangere per troppo tempo per uno che ti ha umiliata e abbandonata, no? Mica puoi perdere anni della tua vita a deprimerti per una che ti ha detto di non averti mai davvero amato; mica puoi spendere il tuo tempo a tormentarti per uno che ti ha lasciato su whatsapp e poi ti ha bloccata ovunque per scomparire nel nulla.

Non puoi soffrire troppo. Non puoi piangere troppo. Non puoi starci troppo male. Devi uscirne, e uscire, presto, il più presto possibile, riprenderti, fare, dire, incontrare gente, vivere! No?

No. 

Ed è qui che il discorso si ricollega a Marie Kondo e al “Magico poter del riordino”.

La donna giapponese, che entra nelle case delle persone per aiutarle a mettere ordine, viene spesso confusa per una che insegna a buttare via le cose. Ma lei non insegna a buttare via. Lei insegna a mettere ordine. Il gettare via è un gesto che va compiuto solo nei confronti delle cose che non ci servono più.

Un cuore spezzato, invece, ci serve ancora tantissimo e se lo gettiamo via prima di aver fatto ordine, perderemo una delle più grandi occasioni della nostra esistenza.

Ma mettere ordine in cosa?

Nella rabbia, nel dolore, nella delusione, chiaro, ma soprattutto, nelle speranze ancora coltivate, nella compassione che ancora proviamo e, rullo di tamburi, nell’amore che ancora sentiamo…

Perché la verità, per quanto sia difficile ammetterlo, è che se si sta così male alla fine di una relazione, è perché a quella persona ci tenevamo e questo non si spazza via solo perché l’altro ha deciso di andarsene o ci ha fatto un torto.

Così, l’idea frettolosa, malsana e purtroppo socialmente condivisa, del “mettere via tutto il più velocemente possibile e gettare il passato nella spazzatura senza troppi rimuginii mentali” non solo diventa impossibile da mettere in pratica, ma finisce per essere anche dannoso ed un enorme spreco.

Sarebbe un po’ come se Marie Kondo entrasse in casa nostra e una volta preso atto del casino dicesse: “ok, metti tutto in una busta e buttalo via. Poi esci e comprati cose nuove. Fatto. Casa ordinata”.

Eh no. Questa non è una casa riordinata, questa è una follia.

Lo stesso non possiamo farlo nella nostro cuore, nella nostra anima, nella nostra vita.

Affrettarsi a gettar via il più velocemente possibile il caos emotivo causato dalla fine di un rapporto e poi freneticamente procurarsi emozioni nuove, esperienze nuove, persone nuove, conduce al rischio di riacquistare ciò che possedevamo già, o ciò che non avremmo più dovuto ricomprare.

Così come diventa rischioso lasciare accumulare polvere, sporcizia ed emozioni, che ci impediranno poi di trovare e accedere con facilità a ciò che ci è necessario per vivere bene e che rimane sepolto chissà dove sotto cumuli di rabbia, rancore e cinica disillusione.

Ecco quindi che arriviamo alla necessità del “riordino del cuore”, un processo di pulizia che include il soffermarsi su TUTTE le emozioni che abbiamo dentro, senza censure e senza evitamenti.

Come se il cuore fosse un armadio, iniziare da quelle di più facile accesso (come rabbia, delusione, sgomento e disprezzo) per arrivare a quelle più nascoste e seppellite che facciamo più fatica ad ammettere (anche noi stessi): l’amore che ancora proviamo, l’affetto che ancora sentiamo, la speranza che ancora coltiviamo.

Perché un cuore spezzato è come un armadio disordinato: solo quando i sentimenti verranno distinti, riordinati, ripuliti, ringraziati e poi messi in una scatola e conservati o lasciati andare, ci sarà finalmente nuovo spazio per una nuova vita, una nuova persona ed un nuovo amore.

 


Illustrazione: @rob_art_illustrazioni

Perché avere una relazione dopo i 30 anni è così difficile, e perché avere brufoli sulla schiena lo è ancora di più

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Tutti vorremmo l’amore, lo desideriamo, lo sogniamo, lo immaginiamo, lo cerchiamo.

Ma poi, quando ci capita l’occasione di viverlo, ecco che iniziano le difficoltà.

Innumerevoli difficoltà, che spesso e volentieri ci fanno protendere verso la classica frase: “ma a me, chi me lo fa fare? Non è meglio la vita da single?”.

Prima di tutto ammettiamolo: si, la vita da single è vastamente più facile di quella in coppia.

Stare da soli significa poter fare ciò che si vuole, senza limitazioni, senza compromessi, senza paranoie e senza dover stare dietro agli umori e alle variazioni interiori di un’altra persona.

Specialmente se già di nostro siamo tipetti un po’ complicati, ma siamo sopravvissuti fino ai post-30 anni, allora è probabile che abbiamo imparato ad autogestirci abbastanza bene.

Sappiamo sopportarci nelle nostre giornate NO, sappiamo goderci la vita anche in autonomia, abbiamo la nostra cerchia di amici e sappiamo come riempire i nostri vuoti e come onorare le nostre personalissime nostalgie.

In tutto questo, l’intrusione di un’altra persona, può farci impazzire.

Ma allora perché continuiamo a cercare?

Perché con un occhio guardiamo avanti con soddisfazione gli orizzonti della nostra vita indipendente e con l’altro ci guardiamo intorno alla ricerca di quel qualcuno di speciale che porterà quel delizioso caos di cui non si riesce mai davvero a fare a meno?

La risposta è nella nostra natura: se la serenità e l’equilibrio sono traguardi che possiamo costruirci anche da soli, con buone abitudini quotidiane composte di meditazioni, attività fisiche, buona alimentazione e, perchè no, una seduta di terapia ogni tanto, la gioia e la felicità sono esperienze interiori che si provano solo grazie alla presenza degli altri.

E quando l’amore non bussa, stiamo lì ad attendere il suo arrivo, perché dentro ognuno di noi c’è una porta che aspetta solo di essere colpita da quel speciale “toc toc” che ci fa svegliare, emozionare e liberare delle difese inevitabili che ci costruiamo per resistere ad una vita di solitudine.

Ma quindi, se lo vogliamo, perché poi non ci riusciamo?

Perché le relazioni dopo i 30 anni diventano così difficili e spesso non riusciamo a lasciarci andare come vorremmo?

  1. Ci siamo un po’ montati la testa: siccome siamo riusciti a sopravvivere da soli alle tempeste della vita, ci siamo convinti di essere dei super fighi. E in qualche senso è anche vero. Oh, andare avanti con tutto quello che hai passato non è uno scherzo! Riuscire anche a godersi la vita nonostante tutto è pura magia! Di riffa o di raffa la nostra autostima è notevolmente alta, anche se fingiamo che non sia così, dentro, c’è una parte di noi che si da continue pacche sulle spalle e che ci dice <<Oh, amico, ma sei un grande! E siccome sei un grande devi trovare quanto meno uno grande come te! Altrimenti stai solo, meglio solo che male accompagnato eh! Ricordalo!>>. E questa vocina guai a spegnerla, è il frutto di mille lotte vinte e di mille battaglie superate. Quindi, che resti! Solo che, vicino a questa vocina, bisognerebbe ogni tanto ascoltare anche l’altra, quella che ha un quadro più generale di ciò che siamo e che ci dice: <<Si, va bene, sei un grande e sei un super figo, però, i tuoi difetti li hai anche tu eh, non è che siccome sei arrivato fin qui sei perfetto, mo non ti mettere lì a giudicare tutti dall’alto in basso perché ti assicuro che dall’esterno, anche se non tu non puoi vederli, i tuoi limiti si vedono tutti e si, caro mio, sei un super figo, ma i difetti li hai anche tu, e non sono nemmeno pochi>>. Già perché senza ascoltare quest’altra parte della verità su noi stessi finiamo per dimenticare di essere anche noi delle persone difficili, magari un pò isteriche, a volte noiose, infantili, immature, rigide e insopportabili, e crediamo che questi aggettivi appartengano solo agli altri, quei poveri sfigati che non sono alla nostra altezza. Così di noi stessi vediamo solo il meglio e degli altri solo il peggio. Senza fare un bilancio complessivo che ci permetta di avvicinarci a un’altra persona e dire <<e’ un rompiballe clamoroso, ma forse anche io non sono sempre il massimo, vediamo un po’ se invece riusciamo a sopportarci a vicenda e a vedere il lato bello di noi e dell’altro in questa relazione, magari, miracolosamente, anche migliorarci a vicenda, chissà…>>.
  2. Avere qualcuno che ci guarda la schiena ci mette a disagio: sempre il discorso di prima, siamo così abituati a guardarci allo specchio e a dirci che siamo stati bravi, che ci dimentichiamo di avere una schiena che da soli non possiamo vedere <<Oh, hai un brufolo dietro la schiena lo sapevi?>>, <<ma che cavolo dici? Brufoli io? Ma se metto la crema anti-acne sul viso da 12 anni! Non capisci nulla di me! Va via!>>. Così, quando l’altro ci fa notare qualcosa che non ci piace affatto, ci offendiamo, pensiamo di non essere stati capiti, di essere stati considerati male e finiamo per prendercela con quella persona. Mentre dobbiamo imparare ad accettare il fatto che l’altra persona, specialmente se ci sarà molto vicina, vedrà alcuni lati di noi che sono come delle “zone cieche” della nostra personalità, e prenderne consapevolezza ci farà male. Spesso, il dolore e il disagio dello scoprirci imperfetti, manchevoli e non così “super fighi” come pensavamo potrebbe farci pensare che sia meglio continuare a guardarsi il viso allo specchio in solitudine, piuttosto che sentirci contare quegli scomodi, insopportabili ed orrendi brufolini che abbiamo sulla schiena.
  3. Fonderci ci confonde e finisce per farci una paura pazzesca: bene o male, passati i 30 anni, la nostra consapevolezza di chi siamo, come siamo, cosa vogliamo e come ci vedono gli altri è abbastanza strutturata, o forse sono le nostre illusioni a riguardo ad esserlo. E si, perché, un po’ per il discorso della vocina che ci dice che siamo dei fighi, un po’ perché nessuno può guardarsi la schiena da solo, la nostra visione di noi stessi, dobbiamo accettarlo, non corrisponde alla realtà. Ma vi siamo legati, incredibilmente legati e abbandonare certe convinzioni ci spaventa, perché non sono solo convinzioni, qui si tratta di sensazioni, di senso di identità, e quando stai VERAMENTE con un’altra persona, la tua identità inizia a cambiare, perché si fonde in parte con quella dell’altro. E’ come se fossimo tutti dei colori, uno è blu, l’altro è arancione, poi c’è quello giallo, quello azzurro, quello che è diventato un bel verde acceso. Ed entrare in intimità con un altro colore significa mischiarsi, cambiare. Se io sono blu e incontro uno rosso, mica poi restiamo un blu e un rosso che stanno assieme, e no, finisce che poi diventiamo viola tutti e due. E io al viola non ci sono abituato! Non lo sapevo mica che ero capace di diventare in quel modo! E mi spaventa, potrei iniziare a non riconoscermi, a perdere i riferimenti di ciò che sono, o credevo di essere! E mi fa paura cambiare colore! Che ne so che voglio diventare viola? E se invece starei meglio da verde? Se invece, quindi dovrei fondermi con un giallo invece che con un rosso? Così ci blocchiamo, non riusciamo a fare i passi in avanti che ci porterebbero davvero a legarci a qualcuno e ci stacchiamo appena la cosa diventa compromettente. Preferiamo soffrire e gestire una mancanza piuttosto che vivere un cambiamento dovuto ad una presenza.

In definitiva restiamo soli per non cambiare, per sentirci al sicuro, per riconoscere noi stessi nelle nostra idea di noi stessi, per avere dei riferimenti fissi, anche se insoddisfacenti di ciò che siamo. Preferiamo la sicurezza, ciò a cui siamo abituati, il controllo, l’equilibrio che con tanta fatica abbiamo costruito e non ci va proprio che arrivi qualcuno a rovinarlo.

Attenzione però, questa protezione che abbiamo verso il nostro senso di identità e il nostro equilibrio, non è poi così sbagliata: essere aperti ad una relazione non significa essere stupidi.

Ci sono persone che sono DAVVERO pericolose per il nostro equilibrio, ci sono relazioni che ci trasformano DAVVERO in un brutto colore e persone che inventano brufoli che non abbiamo solo per svalutarci e sentirsi migliori di noi.

Ma questo non è amore, questo si chiama abuso, dipendenza, manipolazione e non è di questo che stiamo parlando.

Qui si sta parlando di relazioni vere, quelle che ti cambiano per renderti più te stesso, quelle che ti permettono di vedere i difetti che hai per poi esserti di supporto nel superarli, levigarli, migliorarli, quelle che ti fanno sentire accettato quando sei un super figo, ma anche quando non lo sei.

Stare lontani dalle relazioni per la paura di viverle in maniera malsana, non è la soluzione.

La soluzione è avere una visione realistica di noi stessi, una mappa dei nostri immancabili brufolini sulla schiena e il coraggio di provare a cambiare colore, perché chi lo sa, magari finiamo per trovarne uno che ci sta molto meglio addosso, nella consapevolezza che, il nostro VERO colore, quello che siamo nel profondo, non lo perderemo mai, e che che la nostra VERA identità ha dei confini ben precisi, ed a contatto con gli altri, li scopriamo di più.


 

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Ti amo. Non ti amo. Non lo so. Nel dubbio: AIUTO!

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<<Ti amo. Tu mi ami?>>

Eccolo, il panico che sale.

<<Si…>>

Risponde timidamente…

<<Ma è vero? Vero vero vero???>>

Ed ecco che inizia il loop nella testa: “Oddio, forse non è vero. Forse non tanto quanto dovrebbe essere. Forse dovrei sentire più emozioni, sentire di più la mancanza, e quel battito continuo nel cuore una volta che sono alla sua presenza.Forse, dovrei anche non vedere nessun altro al mondo oltre lui, o oltre lei. Dovrei volermi sposare in ogni istante della mia vita, e respirare la sua aria e non poter fare a meno dei suoi occhi e… e… e… oddio… forse non è vero amore!”

Ci siamo! Eccolo! Questo è il perfetto dialogo interno di chi è affetto da quello che da poco è stato etichettato come Disturbo Ossessivo Compulsivo da Relazione, vale a dire una sintomatologia ossessivo-compulsiva che ha il suo focus sulle relazioni intime e che solo di recente ha iniziato a ricevere attenzione sia dal punto di vista clinico che di ricerca (Doron, Derby, Szepsenwol, 2014).

Cos’è e come funziona?

Semplice, anche se tormentoso per chi ne è affetto, si tratta di vere e proprie ossessioni che possono riguardare la relazione che si vive o caratteristiche più specifiche del proprio partner… o entrambe le cose, se si è particolarmente fortunati 😉

I dubbi e i pensieri ossessivi che riguardano la relazione suonano più o meno come il dialogo interno di cui sopra: “amo o non amo? E come faccio a sapere se amo? E se credo di amare, come faccio ad essere sicuro che provo ciò che dovrei provare? E cosa provo in realtà? Sto davvero bene o lo penso soltanto? E come so che il mio partner mi ama davvero?” E via dicendo. Tanti modi allegri e divertenti per mettere in dubbio qualsiasi cosa e riempirsi di paranoie ad alto contenuto ansiogeno insomma.

Quando i sintomi ossessivi sono focalizzati sul partner allora i pensieri vanno più ad analizzare le caratteristiche fisiche dell’altro, in base alla creatività di ognuno e qui ogni persona è diversa, perché ci sono sempre modi originali per essere folli ;-). Magari ci si fissa su quel punto del naso che proprio non riusciamo a sopportare, o sull’angolazione del viso che ci da fastidio non si sa bene perché, o su come ride, o sul tono di voce che ha, o su come respira e come muove la testa quando dice di SI.

Il tutto è molto, molto difficile da gestire, perché (se hai questo disturbo lo sai e se non lo hai prova ad immaginarlo), soprattutto se non vuoi prendere in giro nessuno o comunque se non vuoi perdere tempo e vuoi essere certo di stare vivendo la relazione “giusta” per te, proverai a mettere in atto una serie di comportamenti per trovare risposte alle domande continue che ti vengono in mente.

Quali comportamenti? Eccone alcuni:

  1. Prestare una continua attenzione ai propri sentimenti per assicurarsi che siano “veri”: è un po’ come tentare di afferrare una farfalla… più le vai dietro, più ti sfuggirà. I pensieri annebbieranno le sensazioni e finirai per non sentire più nulla se non la tua paura folle di non sentire nulla. Fantastico vero? Più cerchi di capire, meno capirai. Più cerchi di sentire, meno sentirai. Più cerchi la sicurezza, meno la avrai. Più rincorrerai la certezza, meno la troverai.
  2. Prestare continua attenzione ai propri comportamenti: sto guadando qualcuno? Perché ho guardato quello lì o quella lì? Forse allora non voglio davvero bene al mio partner? Forse non mi basta? Sto cercando altro? Questo significa che potrei tradirlo/la?” E così via su questa linea. Così, comportamenti che per gli altri sono normalissimi (magari ti sarai già sentito/a dire che anche se si è fidanzati gli occhi continuano ad esserci e che sono fatti per guardare ecc, ecc…), per te diventano fonte di ansia e angoscia. La paranoia continua che siano la prova del tuo non amore. Ecco allora che, magari, inizi ad evitare cose che potrebbero turbarti. Magari non vai alle feste per paura di incontrare qualcuno che attiri la tua attenzione, oppure quando cammini per strada stai a testa bassa nella speranza di non incrociare nessuno sguardo interessante e costruisci intorno a te, man mano, una piccola prigione in cui sentirti al sicuro per il semplice fatto che è priva di stimoli, visto che ogni stimolo che non sia il tuo partner e che ti generi delle sensazioni piacevoli ti manda nel panico. Solo che, sai cosa succede quando si vive in una gabbia? Prima o poi ti viene voglia di evadere. Ed è davvero un peccato, visto che nella gabbia ti ci sei messo/a da solo/a proprio per paura di trovare chissà che cosa fuori.
  3. Confrontare la propria relazione con quella di amici, parenti, film e telefilm o con altre relazioni passate o con le opinioni degli altri: un altro modo per tentare di mettere fine ai dubbi continui su ciò che si prova e sull’autenticità di ciò che si prova, sono i continui confronti. “La coppia di Alfredo e Marianna sembra meno innamorata di noi, però Marco e Giovanna sono più belli e più stabili. Oddio ma io dall’esterno sembro più come Diana o come Vanessa? E perché in quel film dicono di provare quelle cose e io non le provo?”. Confronti su confronti che se anche per un attimo sembrano tranquillizzarti, poi ecco che arriva un dettaglio, una parola o uno sguardo che ti rimette in crisi e riparte il loop, e l’ansia, e l’angoscia.
  4. Aggrapparsi con le unghie e con i denti a momenti della propria storia in cui si è miracolosamente sentito l’amore esattamente come si pensa di doverlo sentire sempre: “dai ma quella volta però mi sono sentito/a così e colà”, “quel giorno ero così felice, se ero così felice vuol dire che sono innamorato/a no?” ecc, ecc, ecc…
  5. Lasciarsi spesso e volentieri: un’altra soluzione che alcuni adottano per testare i propri sentimenti è quella di lasciarsi più o meno una volta alla settimana. Si arriva così tanto al punto di essere soffocati dai propri pensieri ossessivi, che pur di sentire un po’ di sollievo mentale, si decide sistematicamente di lasciare il partner, per poi piombare in una sensazione di mancanza totalizzante, arrivare al punto di sentire bello nitido il dolore e quindi dirsi “ohhh… lo vedi che lo amo? Ah, adesso posso tornarci insieme!”. Si vive in questo stato di estasi sentimentale per un giorno, un’ora o una settimana e poi, SBAM; eccolo di nuovo lo stimolo X che fa tornare i dubbi e il circolo ossessivo riparte.

Si può uscire da tutto questo? Certamente si. Con le giuste strategie.

Eccone 3:

  1. La prima mossa da fare in avanti è capire che tutti questi dubbi non sono il sintomo di poco amore, ma di uno stile di pensiero ossessivo. Ora lo so che ti sentirai un attimo di sollievo ma che subito dopo ti dirai “eh, ma come faccio a sapere che è davvero il mio caso? Magari SEMBRA il mio caso, ma non lo è!”. Ecco, questo pensiero, è solo un’altra manifestazione del disturbo. Quindi, vai avanti a leggere 😉
  2. Smettere di cercare confronti con gli altri: interrompere i tentativi di confronto che li per li ti rassicurano ma che poi ti riportano nei loop. Quindi, niente chiacchierate kilometriche con le amiche, né letture disperate di quello che dice la gente sui forum ecc. STOP all’aiuto da casa! Ok?
  3. Evitare di evitare situazioni, persone, e cose simili per paura che ti cada l’occhio su qualcuno ecc. per iniziare a pensare che più cercherai di capire, sentire e scoprire quello che provi veramente, meno lo saprai. L’obiettivo dovrà essere uscire dal proprio cervello per tornare dentro le sensazioni e restarci anche quando esse saranno ambigue, ambivalenti e instabili. Ed imparare, a poco a poco, a rimanere tranquilli nonostante la mancanza di assoluta certezza e fermezza emotiva. Ma anzi, tollerare i movimenti della propria vita emotiva mentre si costruiscono bei momenti da “semplicemente” vivere con il proprio partner.

Infine, se la cosa è davvero disturbante per te e da solo/a non riesci a tirartene fuori ricorda che puoi richiedere un appuntamento anche via Skype cliccando qui.

Intanto puoi anche iniziare ad utilizzare un’app molto utile (purtroppo però esiste solo in inglese) che aiuta a fare un piccolo training quotidiano per rendere le proprie percezioni più flessibili rispetto all’amore e alla propria relazione. Puoi trovarla qui.

Perché tradiamo, siamo sempre insoddisfatti e spesso mandiamo all’aria tutto senza apparenti motivi

Quando ero piccola un giorno mio padre mi tenne una lezione sulle relazioni umane.

Disegnò due pezzi di un puzzle che in un punto si incastravano alla perfezione. Uno dei due pezzi era così completo, mentre l’altro… restava con un buco al centro, che non veniva riempito.

Il disegno era più o meno così…

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Allora la cosa mi lasciò alquanto sconcertata.

Nel mio modo lineare e semplice di percepire la realtà, mi sembrava ingiusto, assurdo e triste che qualcuno venisse completato da una relazione e l’altro no.

Secondo mio padre, il buco al centro era la spiegazione delle trasgressioni all’interno di una coppia.

Per anni ho pensato a questa sua metafora e al suo disegno.

Ho tentato costantemente di contrastare, con le mie esperienze, la sua visione del mondo.

Ma, in verità, non ci sono riuscita.

In effetti devo ammettere che è vero: anche se in qualche punto di noi stessi le persone che scegliamo come nostri partner ci compensano, rimane sempre qualcosa di “non risolto” dentro di noi.

E più tentiamo di delegare al nostro partner l’incarico di completarci, di riempire i vuoti e spazzare via le nostre personali ambiguità, più ci sentiremo non compresi, sbagliati e, peggio ancora, sempre alla ricerca di qualcos’altro.

In questa prospettiva di cose, o siamo così fortunati da incontrare un vero e proprio “miracolo” vivente, in grado di mettere a posto ciò che noi stessi non riusciamo a mettere a posto, o ad un certo punto facciamo i conti con la realtà dei fatti e ce ne prendiamo la responsabilità ammettendo, a noi stessi prima di tutto, che si, la persona che abbiamo vicino ci rende felici, a volte, ma molto più spesso non arriva nemmeno lontanamente a comprendere ciò che profondamente ci turba, ci fa svegliare col magone e ci fa vivere in questo strano stato di perenne e immotivata, insoddisfazione.

E allora che dovremmo fare? Dopo aver preso coscienza del fatto che chi ci sta accanto non può e soprattutto NON HA il compito di riempire i nostri vuoti, che dobbiamo fare?

Davvero l’unica soluzione è la trasgressione? Cercare in altri ciò che i nostri partner non possono e non potranno mai darci? Tradire? Lasciare? E continuare così a strappare le trame delle nostre vite in modi che poi non solo non guariscono, ma feriscono di più e più profondamente?

Ecco 3 consigli per gestire la cosa, o almeno, per iniziare a prendersene cura in maniera più adulta:

  1. Rendersi conto che avere dei “buchi” interiori è normale e che li abbiamo tutti: non vergognarsi delle proprie vulnerabilità e non nasconderle soprattutto a se stessi è il primo passo per potervi venire a patti. Siamo tutti folli, ognuno a modo suo. Non esiste la perfezione, la persona senza pecche, quella del tutto equilibrata. E se qualcuno sembra essere così è il più folle di tutti. Le pazzie fanno parte dell’essere umano. Se fossimo già perfetti saremmo morti. Perché siamo qui per migliorarci, non per essere già migliori.
  2. Accettare il fatto che ognuno ha la responsabilità di guardare, comprendere e curare le proprie ferite e i propri difetti: non sono gli altri a doversi adattare a noi, non è il mondo a dover diventare più “buono” se la cattiveria ci manda in crisi, non è il partner a dover diventare più “comprensivo” se sentirci incompresi ci fa dare di matto e ci getta nella solitudine più profonda. Ciò che vibra dentro di noi, ciò che non ci fa sentire a posto, che ci fa paura, che ci fa arrabbiare ecc, sono tutte cose che rientrano nelle nostre personalissime responsabilità. Non è lui o lei a doversi adattare a te, né tu devi adattarti a lui o lei. Va bene, ci si supporta e ci si sopporta, ma il principale compito che abbiamo è quello di guarire noi stessi, chiedendo aiuto alle persone giusto al momento giusto. E no, i partner non sono degli psicoterapeuti, né degli infermieri, né dei genitori. Sono partner. Persone che ci camminano affianco. Punto.
  3. Distinguere i surrogati di guarigione dalla guarigione vera: molte persone riescono a fare i primi due passi, ma poi si perdono al terzo. Così capiscono di avere delle mancanze, sanno che i loro partner non possono compensare e quindi… cercano altri partner… Molti tradimenti, fughe, vizi di varia natura, sono solo modi che vengono utilizzati per “metterci la toppa”, non pensarci, rimandare il momento in cui dovremo affrontare DAVVERO i nostri sospesi. Ma cercare di tappare un forellino mettendoci dentro una pietra potrebbe persino allargarlo di più! A volte, le cose che tentiamo di fare per non sentire certe mancanze dentro di noi, sono proprio ciò che le renderà insopportabili nel tempo. Prendersi cura delle nostre fratture interiori, dei nostri modi di essere scomodi e scompensanti, delle nostre paturnie, follie e difetti è l’unico modo che abbiamo per vivere più felici nelle relazioni che costruiamo nel corso della nostra vita. Si dice che l’amore guarisca, ma lo fa solo se, dopo che esso ci ha indicato la zona d’ombra che abbiamo dentro, siamo noi a metterci mano, magari con l’aiuto di un professionista, quando serve 😉

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Dipendenza affettiva: cos’è?

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Quante volte mi sono sentita dire: “Sa dottoressa, io ho un problema, ho scoperto di soffrire di dipendenza affettiva”. Ma che cos’è questa “dipendenza affettiva”? E come se ne esce? E’ una malattia incurabile? E’ solo un’etichetta creata per giustificare certi comportamenti? E’ un modo di essere che fa parte del carattere e che non può essere risolto? Cerchiamo di capire meglio. Prima di tutto, quali i sono i segnali che di solito descrivono una persona che “soffre” di dipendenza affettiva:

  • Paura di essere inadeguati a meritare o mantenere un importante legame affettivo.

  • Senso generale di disistima in se stessi e particolarmente per ciò che riguarda la propria amabilità umana e/o intelligenza o attrattiva sentimentale e sessuale.

  • Idealizzazione della persona amata la cui sola vicinanza è in grado di fornire benessere al dipendente innamorato.

  • Elargizione d’amore a senso unico, fino al limite del collasso psicofisico da stress.

  • Sottomissione caratteriale e tolleranza verso gli aspetti “negativi” della persona amata.

  • Dolore angoscioso o depressivo ad ogni separazione o possibile abbandono.

  • Tendenza ad assumersi le colpe nelle crisi di rapporto.

  • Ansia e attacchi di panico relativi a dubbi, conflitti o crisi inerenti il rapporto di dipendenza.

  • Bisogno di controllare la persona amata in ogni suo momento e in ogni suo movimento, così come anche in ogni suo pensiero.

  • Gelosia morbosa, ossessiva.

  • Riduzione progressiva dei contatti affettivi e sociali a favore del rapporto di dipendenza.

  • Rabbia e disperazione all’idea che il partner possa “godersi la vita” senza l’innamorato.

  • Compulsione a seguire e talvolta minacciare e perseguitare la persona amata che sfugge al controllo sentimentale.

Ora, se stai leggendo questo articolo, probabilmente il titolo ha attirato il tuo interesse, e leggendo questo elenco adesso nella tua testa dirai: “Oh, cavolo! Allora SOFFRO DI DIPENDENZA AFFETTIVA! OH MIO DIO E ADESSO????” No panic. La situazione può essere meno allarmante di quanto credi, perché capire dove ti trovi in questo momento, non significa doverci rimanere a vita! Anzi, è il primo passo per poter prendere una bussola, decidere dove andare, e organizzare il viaggio. Come farlo? Ne parleremo nel prossimo articolo.