Year2018

In che modo la tua “ombra” può rovinare la tua vita e in che modo, invece, potrebbe salvartela

Avete presente quando un amico vi chiede se volete uscire e a voi non va affatto di vederlo, solo che non avete il coraggio di dire la verità, quindi inventate una scusa qualsiasi per togliervi dall’imbarazzo, oppure quando vi viene chiesto di fare una presentazione in ufficio e vi sale quell’ansia pazzesca che non vi lascia respiro e che non vi fa dormire fino a che quella dannata presentazione non sarà finita?

Ecco, queste due cose, insieme a molte altre, sono la manifestazione della vostra ombra.

Ma che cos’è l’ombra? E come si fa a gestirla?

Per parlare in termini semplici, l’ombra è l’insieme di quelle parti di noi che riteniamo intimamente riprovevoli o fonte di vergogna che cerchiamo in tutti i modi di tenere nascoste agli altri, al mondo e a noi stessi.

L’ombra è quella parte di noi che quel giorno preferisce stare sul divano piuttosto che ascoltare le ultime lamentele dell’amico X, o quella che crediamo faccia solo figuracce in pubblico e che non vogliamo proprio mostrare all’uditorio verso il quale ci è stato chiesto di fare la presentazione.

L’ombra è il concentrato di pensieri amorali e moralmente condannabili che facciamo quando siamo soli, è ciò che ci spinge a mettere in atto comportamenti di cui poi ci vergogniamo e che cerchiamo sempre di tenere ben nascosti.

L’ombra è quella che ci spinge a fare fantasie erotiche su altre persone mentre siamo con il nostro partner, quella che ci fa giudicare male la forma delle sue gambe, o delle sue labbra, o delle sue mani.

E’ quella che vorrebbe gridare cose orribili al capo che ci da una nuova difficile mansione, o che ci fa venire voglia di scappare quando torniamo a casa stanchi dal lavoro e i nostri figli, bisognosi e piagnucolanti, ci attendono alla porta.

L’ombra, in definitiva, è tutto ciò che odiamo di noi stessi, tutto ciò che non vogliamo guardare e che vorremmo nessuno veda mai.

Siamo abituati a pensare che per essere delle brave persone, degne di amore e di rispetto e fiducia, dobbiamo tenere nascosta la nostra ombra. Abbiamo imparato a mentire, ad essere ipocriti quando serve, a fare buon viso a cattivo gioco pur di non farla venire allo scoperto. 

Ma se da una parte, tenere a bada certe nostre tendenze è necessario per poter convivere con gli altri, portare avanti il nostro matrimonio o non farci licenziare in tronco, dall’altra la continua censura potrebbe far venire fuori l’ombra quando meno ce lo aspettiamo e nelle situazioni meno opportune.

Parlo dell’angoscia che ci prende appena svegli o che non ci fa proprio addormentare, della rabbia che ci sale quando siamo bloccati nel traffico, della disperazione che ci schiaccia di fronte a cose di nessuna importanza (almeno all’apparenza).

Ma allora, se tenere a bada la nostra ombra fa parte della nostra sopravvivenza sociale ed emotiva, cosa bisogna fare per non esserne invasi in questi modi subdoli? Cosa fare per sopravvivere non solo nella società, ma anche dentro noi stessi?

Deepack Chopra, scrittore e medico indiano, scrive: <<Avere un’ombra non significa affatto essere imperfetti, bensì completi>>. Questo significa che il primo passo per non farci dominare dalla nostra ombra è iniziare a pensare che tutto ciò che odiamo di noi, che riteniamo orribile, censurabile, da nascondere e riprovevole, non è altro che una parte della natura umana, che non abbiamo solo noi, ma che hanno tutti!

Ma non solo! Tutte le cose che schifiamo e aborriamo negli altri, sono proprio le stesse che abbiamo dentro, ma che non vogliamo guardare.

In poche parole, senza troppi giri concettuali, facciamo tutti un po’ schifo…

Ma questo schifo, queste parti malsane di noi, questi difetti contro cui lottiamo o che cerchiamo di nascondere, sono una parte fondante della nostra vera identità. La forma oscura e “sbagliata” che hanno preso, l’hanno assunta proprio perché li lasciamo crescere nel buio della nostra coscienza, invece di portarli alla luce e farli illuminare dai nostri lati migliori.

Il problema quindi non è avere un’ombra, quanto averne paura e volerla lasciare nascosta, perché si sa, una volta alla luce non c’è nessuna lotta da dover fare, perché l’ombra, semplicemente, scompare.

In termini pratici cosa sto dicendo?

Che se ci sono parti di te che ti spaventano, comportamenti che non comprendi e di cui sei succube, dipendenze che non riesci a debellare, ossessioni di cui non riesci a liberarti, forse è il caso di smetterla di lasciarle là in sottofondo, tirarle fuori, affrontarle e scoprire cosa vogliono dirti di te, come possono aiutarti a vivere meglio (e non peggio) e in che modo possono essere utilizzate in maniera più funzionale per te stesso, le persone che ami e il mondo in cui esisti.

Spesso si crede che andare in terapia significhi ammettere di avere dei problemi, di non stare veramente bene, di non farcela da soli.

Ed è vero!

Finalmente! (aggiungerei)

Nessuno si salva da solo, ma ciascuno di noi ha in sé il potere di darsi una mano a farlo, a volte, chiedendo un aiuto.

E se leggendo questo articolo stai pensando che forse si, ci sono delle cosine che sarebbe il caso di guardare un po’ meglio e di mettere in ordine, allora fallo, non aspettare troppo, perché quando l’ombra resta nell’ombra, diventa solo più grande e più forte.

 


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Cherofobia, Martina Attili e X Factor: ma esiste davvero la paura di essere felici o si tratta di qualcos’altro?

Qualche giorno fa alle audizioni di X Factor 2018 si è esibita la giovanissima cantante Martina Attili che ha fatto venire a tutti la pelle d’oca parlando della sua paura di essere felice: la cherofobia.

Ma questa fobia esiste davvero?

Nel DSM-5 (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) non c’è, non è quindi considerata come un vero e proprio disturbo psicologico. Ma non tutto quello che esiste nella realtà è sempre stato ben classificato dagli esseri umani, ed inoltre, a sentire Martina, pare che i sintomi siano più che reali per lei (e non solo per lei).

Partiamo dalla canzone e cerchiamo di capire meglio cos’è la cherofobia e se esista davvero questa “paura della felicità”.

Come te la spiego la paura di essere felici 
quando non l’hanno capita nemmeno i miei amici. 

Prima caratteristica sulla quale soffermarci: non saperlo spiegare agli altri. Ok, questo succede un po’ con tutti i disturbi, perché quando si prova a descrivere la propria sofferenza a qualcuno che non la vive si finisce sempre per sentirsi profondamente soli. Così, oltre al dolore della patologia in sé, si finisce per potarsi dietro anche un dolore aggiunto: il sentirsi incompresi.

Ma l’incomprensione non è un sintomo specifico della cherofobia, è più che altro un “accessorio”, non siamo ancora arrivati al cuore della questione, quindi, andiamo avanti…


Mi dicono di stare calma quando serve 
mi portano del latte caldo e delle coperte. 

Ecco, qui possiamo intravedere un sintomo più specifico: il freddo interiore, l’angoscia, l’ansia (che gli altri tentano di tamponare con le forme più disparate di conforto). L’impossibilità di stare calmi in una situazione che per gli altri è del tutto normale.

Ed è proprio quando stanno a parlare che vorrei gridare 
grazie a tutti 
ora potete andare, 
ma resto qui 
a guardare un film.

E siamo alla terza caratteristica: la ricerca di isolamento, la necessità di chiudersi in una realtà conosciuta (guardare un film), che quindi non faccia paura, e che, magari, sappia distrarre. Perché il cherofobico ha bisogno di estraniarsi dalla realtà, ha bisogno di allontanarsene.

Ed evita, evita tutte le situazioni (sociali, cambiamenti di vita, occasioni) che potrebbero condurlo a un miglioramento della sua condizione essendo convinto del fatto che immediatamente dopo la sensazione di felicità arriverà di certo qualcosa che rovinerà tutto.

E’ questo il punto focale della cherofobia.

Si dice, per semplificare, che il cherofobico abbia paura della felicità, ma in verità, il cherofobico non ha paura della felicità in se stessa, ha paura di quando questa felicità non ci sarà più.

Ha sempre quella sensazione spaventosa ed invadente, subdola e nascosta, che anche nel momento più gioioso al mondo sia in attesa, da qualche parte, l’altro lato nefasto della medaglia: l’attimo in cui quel momento sarà passato e al suo posto ci sarà solo il vuoto, il dolore, il non senso.

Meglio non provare nulla allora, meglio non cambiare niente, almeno l’equilibrio attuale lo si conosce, si sa cosa aspettarsi, quali sensazioni sentire e quali non aspettarsi più.

Ma d’altra parte, come dargli torto?

Non è forse altamente probabile che ad una gioia possa seguire un dolore? Che un amore nato lasci prevedere anche la sua probabile fine, che ogni alba sia solo l’inizio del prossimo tramonto?

Così, per non soffrire, preferisco non gioire.

Sto fermo, nel mio stagno emotivo esistenziale ed evito accuratamente tutte le onde che potrebbero portarmi troppo in alto e poi farmi cadere giù.

Evito i cambiamenti potenzialmente favorevoli, perché potrebbero cambiare ancora e lasciarmi lì attonito con la bocca asciutta.

Evito le situazioni sociali troppo coinvolgenti, perché quando si saranno esaurite, mi sentirò più solo e sentirò assenze insopportabili da sentire.

Evito l’amore, perché quando finirà, potrebbe distruggermi.

In poche parole, evito di vivere, perché la morte mi farebbe troppo male e scelgo di sopravvivere.

Ma proprio a causa di questa soluzione di evitamento che adotto, proprio a causa del fatto che rinuncio alla felicità pur di non sentire la sofferenza, mi indebolisco.

Eh si perché, senza rendermene conto, è proteggendomi che mi metto più a rischio.

Perché se è vero che tutto cambia e che l’ombra è sempre dietro l’angolo, anche quello che in questo momento mi sembra sicuro e stabile potrebbe cambiare, spezzarsi, frantumarsi. Solo che, quando accadrà, io non sarà pronto a gestirlo, perché, come accade a chi si chiude in casa per evitare le malattie, non ho mai dato modo al mio “organismo esistenziale” di farsi gli anticorpi e quando arriva la malattia mi annienta davvero.

La soluzione a tutto questo?

Non si tratta sicuramente di convincersi che la felicità durerà per sempre (sarebbe ingenuo e sarebbe una illusione che aprirebbe le porte a tutte le delusioni successive), ma di comprendere che evitare la vita è proprio ciò che alimenta la paura di farsi male, perché evitando si diventa più vulnerabili, e più deboli.

La strada, quindi, è quella di vaccinarsi al dolore, alla sensazione di vuoto che coglie ognuno di noi quando una felicità sulla quale contavamo viene a mancare.

Armarsi interiormente, emotivamente, esistenzialmente per diventare capaci di fronteggiare le parentesi di dolore che possono esistere tra un periodo felice e l’altro, e perché no, imparare anche a coglierne i benefici nascosti, perché, come diceva la terapeuta Elizabeth Kubler Ross: La vita è come una centrifuga, sei tu che decidi se uscirne distrutto o ben levigato.


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Perché avere una relazione dopo i 30 anni è così difficile, e perché avere brufoli sulla schiena lo è ancora di più

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Tutti vorremmo l’amore, lo desideriamo, lo sogniamo, lo immaginiamo, lo cerchiamo.

Ma poi, quando ci capita l’occasione di viverlo, ecco che iniziano le difficoltà.

Innumerevoli difficoltà, che spesso e volentieri ci fanno protendere verso la classica frase: “ma a me, chi me lo fa fare? Non è meglio la vita da single?”.

Prima di tutto ammettiamolo: si, la vita da single è vastamente più facile di quella in coppia.

Stare da soli significa poter fare ciò che si vuole, senza limitazioni, senza compromessi, senza paranoie e senza dover stare dietro agli umori e alle variazioni interiori di un’altra persona.

Specialmente se già di nostro siamo tipetti un po’ complicati, ma siamo sopravvissuti fino ai post-30 anni, allora è probabile che abbiamo imparato ad autogestirci abbastanza bene.

Sappiamo sopportarci nelle nostre giornate NO, sappiamo goderci la vita anche in autonomia, abbiamo la nostra cerchia di amici e sappiamo come riempire i nostri vuoti e come onorare le nostre personalissime nostalgie.

In tutto questo, l’intrusione di un’altra persona, può farci impazzire.

Ma allora perché continuiamo a cercare?

Perché con un occhio guardiamo avanti con soddisfazione gli orizzonti della nostra vita indipendente e con l’altro ci guardiamo intorno alla ricerca di quel qualcuno di speciale che porterà quel delizioso caos di cui non si riesce mai davvero a fare a meno?

La risposta è nella nostra natura: se la serenità e l’equilibrio sono traguardi che possiamo costruirci anche da soli, con buone abitudini quotidiane composte di meditazioni, attività fisiche, buona alimentazione e, perchè no, una seduta di terapia ogni tanto, la gioia e la felicità sono esperienze interiori che si provano solo grazie alla presenza degli altri.

E quando l’amore non bussa, stiamo lì ad attendere il suo arrivo, perché dentro ognuno di noi c’è una porta che aspetta solo di essere colpita da quel speciale “toc toc” che ci fa svegliare, emozionare e liberare delle difese inevitabili che ci costruiamo per resistere ad una vita di solitudine.

Ma quindi, se lo vogliamo, perché poi non ci riusciamo?

Perché le relazioni dopo i 30 anni diventano così difficili e spesso non riusciamo a lasciarci andare come vorremmo?

  1. Ci siamo un po’ montati la testa: siccome siamo riusciti a sopravvivere da soli alle tempeste della vita, ci siamo convinti di essere dei super fighi. E in qualche senso è anche vero. Oh, andare avanti con tutto quello che hai passato non è uno scherzo! Riuscire anche a godersi la vita nonostante tutto è pura magia! Di riffa o di raffa la nostra autostima è notevolmente alta, anche se fingiamo che non sia così, dentro, c’è una parte di noi che si da continue pacche sulle spalle e che ci dice <<Oh, amico, ma sei un grande! E siccome sei un grande devi trovare quanto meno uno grande come te! Altrimenti stai solo, meglio solo che male accompagnato eh! Ricordalo!>>. E questa vocina guai a spegnerla, è il frutto di mille lotte vinte e di mille battaglie superate. Quindi, che resti! Solo che, vicino a questa vocina, bisognerebbe ogni tanto ascoltare anche l’altra, quella che ha un quadro più generale di ciò che siamo e che ci dice: <<Si, va bene, sei un grande e sei un super figo, però, i tuoi difetti li hai anche tu eh, non è che siccome sei arrivato fin qui sei perfetto, mo non ti mettere lì a giudicare tutti dall’alto in basso perché ti assicuro che dall’esterno, anche se non tu non puoi vederli, i tuoi limiti si vedono tutti e si, caro mio, sei un super figo, ma i difetti li hai anche tu, e non sono nemmeno pochi>>. Già perché senza ascoltare quest’altra parte della verità su noi stessi finiamo per dimenticare di essere anche noi delle persone difficili, magari un pò isteriche, a volte noiose, infantili, immature, rigide e insopportabili, e crediamo che questi aggettivi appartengano solo agli altri, quei poveri sfigati che non sono alla nostra altezza. Così di noi stessi vediamo solo il meglio e degli altri solo il peggio. Senza fare un bilancio complessivo che ci permetta di avvicinarci a un’altra persona e dire <<e’ un rompiballe clamoroso, ma forse anche io non sono sempre il massimo, vediamo un po’ se invece riusciamo a sopportarci a vicenda e a vedere il lato bello di noi e dell’altro in questa relazione, magari, miracolosamente, anche migliorarci a vicenda, chissà…>>.
  2. Avere qualcuno che ci guarda la schiena ci mette a disagio: sempre il discorso di prima, siamo così abituati a guardarci allo specchio e a dirci che siamo stati bravi, che ci dimentichiamo di avere una schiena che da soli non possiamo vedere <<Oh, hai un brufolo dietro la schiena lo sapevi?>>, <<ma che cavolo dici? Brufoli io? Ma se metto la crema anti-acne sul viso da 12 anni! Non capisci nulla di me! Va via!>>. Così, quando l’altro ci fa notare qualcosa che non ci piace affatto, ci offendiamo, pensiamo di non essere stati capiti, di essere stati considerati male e finiamo per prendercela con quella persona. Mentre dobbiamo imparare ad accettare il fatto che l’altra persona, specialmente se ci sarà molto vicina, vedrà alcuni lati di noi che sono come delle “zone cieche” della nostra personalità, e prenderne consapevolezza ci farà male. Spesso, il dolore e il disagio dello scoprirci imperfetti, manchevoli e non così “super fighi” come pensavamo potrebbe farci pensare che sia meglio continuare a guardarsi il viso allo specchio in solitudine, piuttosto che sentirci contare quegli scomodi, insopportabili ed orrendi brufolini che abbiamo sulla schiena.
  3. Fonderci ci confonde e finisce per farci una paura pazzesca: bene o male, passati i 30 anni, la nostra consapevolezza di chi siamo, come siamo, cosa vogliamo e come ci vedono gli altri è abbastanza strutturata, o forse sono le nostre illusioni a riguardo ad esserlo. E si, perché, un po’ per il discorso della vocina che ci dice che siamo dei fighi, un po’ perché nessuno può guardarsi la schiena da solo, la nostra visione di noi stessi, dobbiamo accettarlo, non corrisponde alla realtà. Ma vi siamo legati, incredibilmente legati e abbandonare certe convinzioni ci spaventa, perché non sono solo convinzioni, qui si tratta di sensazioni, di senso di identità, e quando stai VERAMENTE con un’altra persona, la tua identità inizia a cambiare, perché si fonde in parte con quella dell’altro. E’ come se fossimo tutti dei colori, uno è blu, l’altro è arancione, poi c’è quello giallo, quello azzurro, quello che è diventato un bel verde acceso. Ed entrare in intimità con un altro colore significa mischiarsi, cambiare. Se io sono blu e incontro uno rosso, mica poi restiamo un blu e un rosso che stanno assieme, e no, finisce che poi diventiamo viola tutti e due. E io al viola non ci sono abituato! Non lo sapevo mica che ero capace di diventare in quel modo! E mi spaventa, potrei iniziare a non riconoscermi, a perdere i riferimenti di ciò che sono, o credevo di essere! E mi fa paura cambiare colore! Che ne so che voglio diventare viola? E se invece starei meglio da verde? Se invece, quindi dovrei fondermi con un giallo invece che con un rosso? Così ci blocchiamo, non riusciamo a fare i passi in avanti che ci porterebbero davvero a legarci a qualcuno e ci stacchiamo appena la cosa diventa compromettente. Preferiamo soffrire e gestire una mancanza piuttosto che vivere un cambiamento dovuto ad una presenza.

In definitiva restiamo soli per non cambiare, per sentirci al sicuro, per riconoscere noi stessi nelle nostra idea di noi stessi, per avere dei riferimenti fissi, anche se insoddisfacenti di ciò che siamo. Preferiamo la sicurezza, ciò a cui siamo abituati, il controllo, l’equilibrio che con tanta fatica abbiamo costruito e non ci va proprio che arrivi qualcuno a rovinarlo.

Attenzione però, questa protezione che abbiamo verso il nostro senso di identità e il nostro equilibrio, non è poi così sbagliata: essere aperti ad una relazione non significa essere stupidi.

Ci sono persone che sono DAVVERO pericolose per il nostro equilibrio, ci sono relazioni che ci trasformano DAVVERO in un brutto colore e persone che inventano brufoli che non abbiamo solo per svalutarci e sentirsi migliori di noi.

Ma questo non è amore, questo si chiama abuso, dipendenza, manipolazione e non è di questo che stiamo parlando.

Qui si sta parlando di relazioni vere, quelle che ti cambiano per renderti più te stesso, quelle che ti permettono di vedere i difetti che hai per poi esserti di supporto nel superarli, levigarli, migliorarli, quelle che ti fanno sentire accettato quando sei un super figo, ma anche quando non lo sei.

Stare lontani dalle relazioni per la paura di viverle in maniera malsana, non è la soluzione.

La soluzione è avere una visione realistica di noi stessi, una mappa dei nostri immancabili brufolini sulla schiena e il coraggio di provare a cambiare colore, perché chi lo sa, magari finiamo per trovarne uno che ci sta molto meglio addosso, nella consapevolezza che, il nostro VERO colore, quello che siamo nel profondo, non lo perderemo mai, e che che la nostra VERA identità ha dei confini ben precisi, ed a contatto con gli altri, li scopriamo di più.


 

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IL SALTO

LA RIFLESSIONE DEL GIORNO: 
Appena prima della realizzazione di un Grande Sogno, c’è sempre un Grande Salto. 
Hai già individuato il tuo? 😉

Perche’ i traumi fanno male e perche’ a volte ci rimaniamo bloccati dentro

 

<<La vita è come una centrifuga>> diceva Elisabeth Kubler Ross <<sei tu che decidi se uscirne distrutto o ben levigato>>.

La vita è lineare, quello che crediamo, di solito, tende a realizzarsi, le cose vanno secondo i piani e più o meno tutto e sotto il controllo della nostra volontà… fino a che… non arriva lui: il trauma.

La parola “trauma” significa “ferita”, secondo il dizionario Garzanti, il trauma psichico è una “emozione che incide profondamente sulla personalità del soggetto”.

E’ una lacerazione, una divisione violenta della vita, uno squarcio esistenziale che ci annienta, ci mette a terra, ci schiaccia e ci fa in mille pezzi, dopo il quale diventa difficile, difficilissimo sentirsi “quelli che eravamo prima…”.

Dal trauma in poi il tempo della vita non è più lo stesso, viene scandito in un “prima” e in un “dopo”.

Tutto ruota intorno a quell’evento, quell’incidente, quel lutto, quella perdita, quella catastrofe, quel qualcosa che ha cambiato per sempre la nostra vita ormai fatta di ricordi, flashback, paure, dolore, rabbia, e dalla sensazione di non riuscire ad andare oltre. Stiamo fissi lì, in un putrido stagno esistenziale a guardare inorriditi quel “qualcosa” che è accaduto, che non ci aspettavamo, che ha devastato la percezione del mondo esistente fino a quel momento e che sta là, prepotente, senza cambiare di una virgola, nonostante passino i giorni, le settimane, i mesi, gli anni.

In quanto esseri umani, avremmo le capacità per uscire vivi da un trauma.

Possiamo farcela, è nelle nostre facoltà riuscire ad un certo punto a guardare le cose da una prospettiva che permetta di sopravvivere e riorganizzare la nostra vita, continuare a camminare, avere ancora delle speranze e sentirsi cambiati, si, ma anche migliorati, cresciuti, rinnovati.

Ma ci sono volte in cui le cose non vanno così.

Ci sono lutti dai quali non riusciamo a staccarci, eventi che non riusciamo a dimenticare, catastrofi che continuano a tormentarci.

Così la funzionalità della nostra vita viene compromessa.

Anche perché, come spesso avviene, nel tentativo di sistemare le cose facciamo più danni di quelli che già aveva fatto il trauma di per sè e per arginare le conseguenze del trauma ci auto-costruiamo nuovi disturbi da sovrapporre a quello post-traumatico:

  • Tentiamo di evitare situazioni o persone legate al trauma? Ecco che ci stiamo infilando in un bel disturbo fobico;
  • Cerchiamo un senso o delle spiegazioni a ciò che è accaduto e puntualmente ci arrendiamo al fatto che non riusciamo a dimenticare? Ecco l’inizio di una depressione;
  • Mettiamo in atto una serie di pratiche e rituali propiziatori per prevenire l’insorgenza di un altro trauma, o per riparare agli effetti del trauma subito? Il modo migliore per iniziare ad essere degli ossessivi compulsivi. 
  • O anche, tentiamo di lenire il dolore con qualche bicchierino di vino in più o con delle droghe e diamo il via ad una dipendenza ecc ecc…

Il più delle volte in cui non si riesce a superare un’esperienza traumatica è perché le nostre risorse sono bloccate proprio dai tentativi che mettiamo in atto per rispondere alle conseguenze emotive e psicologiche che il trauma ha avuto su di noi.

Lo scopo della terapia, quindi, non è quello di insegnare qualcosa di nuovo per superare il trauma, quanto quello di sbloccare le risorse che la vittima del trauma ha GIA’ dentro di se, ma che per una serie di motivi non riesce ad utilizzare.

Quindi, una prima domanda per cercare di sciogliere il tutto ed iniziare il percorso per sbloccarsi dalla situazione esistenziale stagnante e dolorosa di un post-trauma, è: “cosa stai cercando di fare per far fronte a quello che è successo?”

L’elenco che ne verrà fuori conterrà al suo interno proprio le cose che, invece di risolvere, ci inchiodano al trauma, facendo sì che il passato continui ad invadere il presente, senza permettere una progettazione del futuro.

A partire da quell’elenco, in terapia, si costruirà insieme un percorso ad hoc per superare davvero il trauma e ricostruire la propria vita. Così a partire dalla frattura si avrà l’obiettivo di guarire la ferita, permettere che essa cicatrizzi per andare avanti e costruire un equilibrio migliore, più funzionale, per ritrovare quel “piacere di vivere” che adesso sembra impossibile, ingiusto, o addirittura sbagliato e colpevole.

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Per approfondire la lettura dell’argomento si rimanda al testo: Federica Cagnoni – Roberta Milanese, Cambiare il passato, superare esperienze traumatiche con la terapia strategica, Ponte Alle Grazie, 2009, Milano.