Quando avevo sedici anni e amavo disegnare, mi capitava spesso di rappresentare una sensazione che sentivo dentro di me. Il disegno che veniva fuori era sempre simile: una massa scura, una melma opprimente, una presenza che mi schiacciava, mi fermava, mi bloccava.
Era il modo in cui sentivo me stessa allora. Un’adolescente impigliata nella paura di esprimersi, nel terrore del giudizio, nel disagio di dire la cosa sbagliata. Avevo la sensazione costante di non poter venire fuori, di non poter essere davvero chi ero.
Poi la vita è andata avanti. Sono successe molte cose, sono cambiate io, le mie domande, la mia professione. E nel 2019 mi è successo qualcosa di curioso: ho cominciato a ridisegnare quel mostro. Solo che, questa volta, aveva un’altra forma.
Era lo stesso mostro… ma diverso. Il colore era cambiato, la consistenza più morbida, la sua melma quasi soffice. Aveva un aspetto più buffo, più tenero. Era diventato, senza quasi rendermene conto, una creatura con cui era possibile dialogare.
La vera domanda è: cosa era successo nel frattempo?
Il Mostro non è nemico
Durante gli anni, ho iniziato a osservare meglio quella parte di me che prima giudicavo brutta, pericolosa, troppo. Non l’ho più evitata, né demonizzata. Ho iniziato a guardarla con attenzione, a provare ad ascoltarla.
Nel mio lavoro come psicoterapeuta ho visto accadere la stessa cosa a tante persone: ci sono aspetti di noi che vivono nell’ombra. Parti che ci mettono a disagio, che cerchiamo di tenere a bada perché temiamo ci facciano perdere il controllo, ci facciano sentire sbagliati, vulnerabili, fragili, o addirittura “cattivi”.
Ma queste parti, per quanto disturbanti possano sembrare, non sono lì per distruggerci. Anzi, spesso hanno un messaggio importante da darci. Il problema è che, se non sappiamo ascoltarle, usano un linguaggio confuso, scomposto, rabbioso, proprio come un bambino frustrato.
L’ombra come luogo dell’identità
Nella psicologia junghiana, si parla dell’ombra come di tutto ciò che viene rimosso dalla coscienza perché considerato inaccettabile. Ma non è solo lì che vive l’oscurità: lì vive anche il nostro potenziale inespresso. Il nostro talento più puro, la nostra vera unicità, spesso è nascosta proprio dove non vogliamo guardare.
La parte di noi che si vergogna, che si arrabbia, che si sente “troppo” o “non abbastanza”, è la stessa parte che sa chi siamo.
Ecco perché non basta “gestire” le emozioni difficili. Serve aprirci al dialogo. Serve riconoscere che esistono due “sé” dentro di noi: uno più consapevole, accettato, pubblico, e uno più profondo, rimosso, che spesso ci parla proprio attraverso il disagio.
Solo quando questi due sé si incontrano, solo quando si integrano, nasce qualcosa di autentico.
Unire le strade: la psicologia e il disegno
Questo percorso per me è avvenuto su due binari che, inizialmente, non pensavo potessero incontrarsi: quello della psicoterapia e quello dell’illustrazione. Da una parte, aiutavo le persone a mettere in parole le loro ombre; dall’altra, io stessa davo forma visiva alle mie, attraverso le vignette del Mostro.
Quel mostro è diventato una presenza ricorrente nei miei libri illustrati (Io e (il) Mostro, Fabbri Editori, 2021) personaggio con cui la protagonista – una ragazzina – instaura un dialogo. Non più nemico, ma guida.
Come cominciare il dialogo
Non serve essere artisti per farlo. Si può iniziare anche solo scrivendo. Scrivere è un modo potente e accessibile per dare voce a ciò che normalmente zittiamo. Chiedersi: “Che cosa vuole questa parte di me?” – anche se fa paura – è già un primo passo verso l’integrazione.
Come diceva Jung:
“Ciò che neghi, ti sottomette. Ciò che accetti, ti trasforma.”
Il sintomo non è il nemico. È un campanello d’allarme. È una richiesta d’attenzione.
Una strada verso l’interezza
Accettare le nostre ombre non significa giustificare ogni parte di noi. Significa conoscerle, per non esserne più vittime. Significa vedere che in quella parte che giudicavamo debole, aggressiva o sbagliata, c’è una forza – grezza forse – ma creativa, viva, nostra.
Il nostro talento, la nostra unicità, la vera bussola della nostra identità non sono dove brilliamo meglio. Sono spesso dove abbiamo più paura di guardare.
E da lì, passo dopo passo, possiamo cominciare a camminare interi. Verso un sé che non ha più bisogno di nascondersi. Verso un Mostro che, forse, ha sempre voluto solo tenerci per mano.
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